Etimologia del termine perfetto

I Maulino vivono in una villa bassa, una villa moderna marrone scuro con grandi vetrate sul giardino, tutta costruita su piani sfalsati, tre gradini più su, due gradini più giù, si passa da una stanza all’altra cambiando continuamente quota, apparentemente senza motivo, e questo la rende ai miei occhi una casa ancora più perfetta. La cucina ha la finestra all’americana, quella per passare i piatti, che si affaccia sulla sala da pranzo, il pianoforte a mezza coda è quattro gradini più su in un angolo della casa, ma nessuno lo suona. Il papà è ingegnere, le due figlie femmine hanno i capelli lunghissimi, il maschio ha gli occhi azzurri. In una stanza c’è un tavolo con un puzzle enorme che non ho mai visto finito. La mamma Maulino è allegra con delle grandi collane colorate. In giardino c’è il bambù. Sono gli anni Settanta e il bambù è qualcosa di totalmente esotico.

Hai una mania per le liste?
Ti preoccupano in modo ossessivo i dettagli?
Per portare a termine un lavoro dilati i tempi all’infinito?
Delegare è difficile per te?
Queste sono solo alcune delle domande che negli anni sono state alla base degli studi sul perfezionismo.
Negli anni Settanta il tema viene approfondito dagli psicologi Hewitt e Flett, i quali sviluppano una scala di misurazione del perfezionismo, iniziando a studiarne la relazione con il benessere psicologico.
La MPS (Multidimensional Perfectionism Scale) consiste in un questionario che misura differenti aspetti del perfezionismo. La preoccupazione per gli errori, l’eccessiva esigenza verso sé stessi, la preoccupazione per la critica altrui, la necessità di controllo, l’eccessiva organizzazione e l’insoddisfazione per i risultati.
I soggetti perfezionisti possono essere descritti come individui caratterizzati dall’aspettativa di standard eccessivamente elevati, accompagnati da tendenze a valutazioni eccessivamente critiche del proprio comportamento.

Ma cosa c’era di male a sognare di avere una casa perfetta in ogni dettaglio?
Mercoledì dopo mercoledì, ogni volta che tornavo con mia nonna in quella casa, era come entrare in un sogno. Come se mi fosse permesso di accedere al set di un film, come se entrassi nella trama di un libro.
Mia nonna stirava e io giravo per le stanze in cerca di nuovi dettagli speciali.
Poi tornavo a casa e disegnavo su un quaderno la piantina della mia casa ideale.

Quello che rendeva perfetta quella casa era che sembrava che qualcuno non si fosse accontentato, che avesse provato e riprovato mille campioni prima di trovare quel marrone preciso per l’intonaco esterno, che avesse previsto come ci si sente a muoversi su è giù tra le stanze, tre gradini su, quattro giù, quanto piacere ci può essere nel guardare il bambù da una grande vetrata e come può essere assolutamente irrinunciabile avere una stanza solo per un puzzle da diecimila pezzi.

Per me le case degli altri, le vite degli altri, erano una fuga romantica, l’idea che se avessi avuto quella casa perfetta sarei stata felice, e crescendo ho sperimentato che il perfezionismo ha sempre a che fare con la forma e molto poco con la sostanza, perciò cosa c’è di meglio che tenere quella giusta distanza? Come nei libri, come nei film.

Perché, pensavo, ogni cosa reale si corrompe, si guasta, arrugginisce, sbiadisce. Perciò io avrei cercato solo cose speciali, perfette, inalterabili. Perciò io non mi sarei accontentata, come succedeva nella mia famiglia, di un lavoro qualsiasi, di una casa qualsiasi, di una vita qualsiasi.
Quella spinta mi è sempre sembrata sana perché voleva dire dare un valore alle cose, contrapporre al vuoto un pieno.

Alzavo l’asticella ancora un po’ e ancora un po’, ma poi alla fine non era mai abbastanza.
Alzare l’asticella serviva solo per sentirsi sempre un po’ inadeguati, mai all’altezza.
Non portavo a termine cose semplici, o ci mettevo una vita, la sola salvezza era il lavoro che mi imponeva scadenze, io, di mio, spostavo costantemente l’attuazione di ogni cosa verso obiettivi ideali irraggiungibili.
Per portare a termine un lavoro dilati i tempi all’infinito?

Era vuota la mia ambizione come era vuoto quel non aspettarsi nulla dei miei.
Non pretendere niente, non avere nessun sogno era uguale a pretendere solo il massimo, avere solo sogni.

Mi piace dell’inglese che è una lingua molto poco sofisticata, che spiega in modo semplice, che ad esempio innamorarsi si dica falling in love, cadere nell’amore. Cadere come contrario di stare su, idealizzare. Alzare l’asticella.
Ecco ho pensato, per ritrovare un senso interno delle cose, una fiamma calda, io devo imparare a cadere giù.
Frequentare allo sfinimento, fino a farseli diventare amici, l’errore, l’imprecisione, la smagliatura, la bruttezza, la goffaggine, la vergogna. Il mostro che siamo. Spaventoso e prodigioso assieme, come ogni cosa reale, viva, mutevole e imperfetta.
Come fare io ancora non l’ho del tutto capito, perché la perfezione ha quella patina così rassicurante, in cui non sono previsti errori e quindi nulla sfugge al mio controllo.

Ancora certi giorni mi immagino di camminare nella casa dei Maulino, vedo la luce entrare dalle finestre, mi affaccio nella stanza del puzzle per controllare se qualcuno ha aggiunto dei pezzi.
Ancora certi giorni vorrei tornare a casa e disegnare, sul quaderno dei disegni, la mia casa ideale.

Cerco l’etimologia del termine perfetto e scopro che ha origine dal latino perficere, ovvero portare a termine, finire.


Testo scritto da Linda Ronzoni, direttrice di Il Lazzaretto
Immagine generata in dialogo con Intelligenza Artificiale

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Questo articolo è stato scritto da Federico

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