Geniale da morire

Ruth lavora nei campi in Virginia, ha nove anni e compone già poesie. O meglio non è che proprio le componga è più un trascriverle in realtà. Dice che quando succede sente in lontananza la poesia che arriva, dall’orizzonte, come un treno d’aria che arriva verso di lei. È così potente che avvicinandosi fa tremare la terra sotto i piedi e lei può fare solo una cosa.
Correre!
Correre a perdifiato verso casa, prendere una matita e un pezzo di carta abbastanza in fretta da raccoglierla. A volte non riesce a correre abbastanza in fretta e sente che la poesia rotola via a cercare un altro poeta.

Nell’antica Grecia e nell’antica Roma si pensava che la creatività venisse da un guardiano divino, uno spirito, da una sorgente distante e sconosciuta. I greci chiamavano questi spiriti guardiani demoni, i romani genio. Quindi un genio non era una persona particolarmente dotata ma un’entità che viveva nei muri e che veniva fuori di nascosto per assistere il lavoro dell’artista.
E questa distanza proteggeva l’artista da molte cose.
Se il lavoro era eccezionale non poteva prendersi tutto il merito perché si sapeva che era stato aiutato da questo genio incorporeo. Se il lavoro falliva non era tutta colpa sua.
Poi il Rinascimento mise l’uomo al centro e sopra a tutto e si cominciò a pensare che la creatività venisse completamente dall’individuo e si prese a riferirsi a un artista come a un genio, non più come a una persona con del genio.
Pensare che una persona possa credere di essere la fonte, la sorgente, l’essenza di tutti i misteri creativi, inconoscibili ed eterni significa dargli una responsabilità assurda.
Noi umani abbiamo una psiche fragile, deformare e distorcere l’ego in questo modo crea aspettative ingestibili.

Nei secoli è successo qualcosa di simile con la morte.
Il processo di civilizzazione occidentale ha portato a una sorta di rimozione della morte e alla solitudine del morente: il tabù della morte è passato attraverso un movimento che da una scena pubblica – la morte come momento comunitario e collettivo – ha condotto a un dramma privato.
Nel Medioevo la morte non  rappresentava la dissoluzione dell’esistenza umana, ma il compimento di un destino e la vita e la morte si collocavano all’interno di una narrazione collettiva.
La morte, oggi, non rappresenta più un compimento, ma solo la fine.

Cammino verso la spiaggia con mio zio Silvio, dal parcheggio si percorre un piccolo sentiero molto scosceso di terra secca. Siamo proprio lì, lui davanti e io dietro che cerco di non scivolare con le ciabatte, primo piano di lui che si gira e in dialetto pesarese mi dice: ma t’zi giniela.
Io non so nemmeno cosa ho detto. Ma il focus non è quello che ho detto io ma quella frase magica: sei geniale!
Lui mi ha vista, io esisto, io esisto perché sono geniale. È come se avessi mangiato un quintale di zucchero filato rosa in un secondo. Picco glicemico alle stelle.
Il primo picco glicemico consapevole sarà stato a sei anni, poi ne ho in mente altri due.
Uno con un’insegnante e uno con una collega di lavoro. Ma sei geniale!

Calma, ci ho lavorato su eh, non sono qui a scrivere: guardi signora mia com’è pesante essere dei geni. Ok ego ipertrofico ma non fino a quel punto.
Ma mentirei se dicessi che stare in quel picco glicemico, abbuffarmi di zucchero filato, essere geniale, essere speciale, non era la mia spinta più forte, sennò avrei fatto la parrucchiera come dicevo quando andavo all’asilo.
Invece prima era il disegno, guardate bambini com’è brava la vostra compagna Linda, poi la scrittura, poi l’agenzia di pubblicità: per domani voglio almeno 5 idee geniali.

Quello che voglio dire, parlando di ispirazione creativa e di morte, è che quello che è successo nei secoli è successo pure dentro di me: chi può rimanere reale se deve reggere il peso di essere speciale? E c’è un legame strettissimo tra essere speciale e avere il terrore di morire e quindi sparire.
Sparire alla vista degli altri, non esistere più, non avere senso. Da vivi come da morti.
Non avere più lo sguardo di mio zio Silvio che mi vede.
E l’aspetto più terrificante di non essere più speciale, e di essere quindi come tutti gli altri, è diventare mortale. Sentire dentro di sé questa semplice e deflagrante verità.

E allora, mi chiedo, il mostro più terrificante tra i mostri oggi è la morte o il narcisismo?

Quando ho scovato la storia di Ruth Stone, poetessa americana divenuta celebre a quasi novant’anni dopo una vita passata a scrivere poesie, sono restata incantata da questa capacità di sentire così forte, quasi sovrannaturale; ho pensato a quanto deve essere stato salvifico, proprio lei che invece avrebbe potuto sentirsi davvero un genio, immaginare di essere solo un mezzo, essere attraversati dalle cose, dare un corpo all’ispirazione, all’invisibile ‘altro’, di sapere che il genio sta nei muri o laggiù all’orizzonte e a volte se sei abbastanza sensibile può investirti.
Poter dire che le tue doti ti sono state concesse in prestito da qualche inimmaginabile fonte e a un certo punto passeranno a qualcun altro. E sentire che questo è una liberazione e un sollievo.

Io vorrei per un giorno essere Ruth, per un attimo essere al suo posto per capire come si fa.
Essere Ruth, quella volta che è corsa fino a casa ma la poesia era troppo veloce e ha afferrato la matita proprio all’ultimo secondo, mentre stava già scappando, e lei ha allungato l’altra mano e l’ha acciuffata per la coda riportandola indietro dentro al suo corpo e la poesia si è presentata perfetta e intatta, ma al contrario.
Dall’ultima alla prima parola.


Testo scritto da Linda Ronzoni, direttrice di Il Lazzaretto
Immagine generata in dialogo con Intelligenza Artificiale

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Questo articolo è stato scritto da Federico

4 commenti

  • Sara

    Ciao! Sto seguendo un corso di scrittura online sulla piattaforma di Domestika e tra i video consigliati c’era un intervento di Elisabeth Gilbert (autrice di Mangia prega ama) che diceva esattamente queste cose. Il video si chiama “Your elusive creative genius”. Caso vuole che lo abbia rivisto proprio ieri. Lei aggiungeva anche questo elemento secondo me molto importante: decidere di credere e non credere insieme in un’entità esterna che ci guida nel processo creativo (demone e genio che sia), scegliere di adottare questo posizionamento per potersi dire: io mi ci sono messa, ci ho messo tutto il mio impegno, ho fatto la mia parte. E questo non per deresponsabilizzare, ma per potersi dire che “va bene così”. Va bene lo stesso avere paura, ma anche concedersi di non diventarne del tutto preda. Nonostante lei durante il suo intervento parlasse dei successi, io l’ho vissuto molto come un discorso di nuovi sguardi adottabili davanti al fallimento, davanti al timore di esso.

    • Linda Ronzoni

      Avevo visto il video un paio di anni fa e mi ha ispirato per questo testo. Grazie per la tua interpretazione sul fallimento che trovo molto interessante

  • Maria Rosa Pividori

    Una bellissima pagina

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