Liberi tutti!

In un tempio jainista ho pregato perché Vito, il mio gatto, non morisse.
Ho offerto a Jina fiori e incenso. Ho camminato a piedi nudi sul marmo freddo leggendo nell’opuscolo in inglese la storia del Jainismo.

Il monaco jainista cammina lentamente, piegato in avanti. Con una piccola scopa pulisce la strada davanti a sé per non calpestare le formiche o i piccoli insetti invisibili all’occhio.
Il monaco jainista filtra l’acqua prima di berla per evitare di ingerire piccoli organismi.
Non uccidere è la sua regola principale.
La non violenza si rivolge egualmente a esseri umani, animali, piante, fino alle forme di vita più sottili e invisibili presenti nell’acqua o nel fuoco.

Mi sentivo in colpa: ma tutto sto dolore per un gatto? Ma mentre deponevo una piccola collana di fiori sui piedi di Jina, sarà stato il profumo dell’incenso che dava un tono liturgico al momento, mi dicevo che lui mi avrebbe capito, che i veri illuminati lo sanno, che ogni cosa importa, ogni vita ha uguale dignità. E che le creature più indifese della terra hanno ancora più diritto di essere difese.

Quando a vent’anni ho smesso di mangiare carne, ho avuto un risveglio. Mi sono sentita come se fino a quel momento la mia coscienza fosse stata addormentata, drogata.
Ero andata a vivere fuori casa e avevo potuto finalmente tenere un gatto.
A casa coi miei un animale era impensabile.
Puzzano, portano le malattie, devono stare all’aperto.

Quella distanza, quell’indietreggiamento, quella rimozione che erano stati il mio pane quotidiano fin da quando ero nata, all’improvviso non erano più possibili. Ogni giorno dormivo abbracciata al mio gatto e sperimentavo la sua capacità di amore, attaccamento e intelligenza.
Ora non potevo più fare finta di nulla, come potevo pensare di accarezzare Ammore e intanto mangiare un panino al prosciutto?

Eppure il sistema capitalista che ci addormenta tutti avrebbe riaddormentato anche me; qualche anno più tardi avrei ripreso a mangiare carne nonostante sapessi tutto delle atrocità degli allevamenti intensivi, di quanto fosse inumano e mostruoso trattare degli esseri così. Sapevo dell’intelligenza dei maiali, delle mucche, sapevo di quanto la loro sofferenza e paura fossero simile alla mia.

Ma ne mangio poca, praticamente niente. Mangio solo i cappelletti a Natale, la mamma li fa con tanto amore, sono le mie tradizioni non posso ripudiarle. Si è sempre fatto così.

Ero tornata un mostro. E quello che mi rendeva un mostro non era la crudeltà ma la noncuranza, la rimozione. L’incancrenirsi dell’abitudine. La banalità del male, come dice Hannah Arendt.

Ero un mostro perché potevo stare seduta a mangiare i cappelletti beandomi di quel buon sapore di brodo di cappone e del ripieno fatto di varie carni macinate più quella grattatina di scorza di limone e crogiolarmi nel calore delle mie tradizioni. Perché il mio palato da soddisfare e il mio sentirmi al sicuro erano indiscutibilmente delle priorità assolute che potevano coprire il sistema di atrocità che macella 150 miliardi di animali ogni anno, mezzo miliardo ogni giorno.

Ero un mostro perché potevo dirmi che però gli animali che vivono all’aperto allora quelli non fanno una brutta vita.

Ero un mostro perché potevo guardare pezzi di animale sottovuoto nel banco frigo del supermercato come guardavo una scatola di biscotti.

Ero un mostro perché credevo che ci fossero violenze buone e violenze cattive.

Ero un mostro perché assecondavo con la mia passività l’attitudine degli uomini a essere torturatori e padroni da sempre, perché fingevo di non sapere che tutto quel dolore che stavamo infliggendo da secoli era inscritto nella nostra storia, nella mia storia. Come un peccato originale. Il vero peccato originale.

Ero un mostro perché sapevo che durante l’agonia un animale da macello produce in gran quantità tossine ed adrenalina, come ne produrremmo noi animali umani se fossimo torturati.
Ero un mostro perché mangiavo dolore.

Forse ho smesso di essere un mostro quando mi sono vista da fuori e ho visto un mostro.

“Siate fecondi, moltiplicatevi e riempite la terra. La paura di voi e il terrore di voi siano in tutti gli animali selvatici e in tutti gli uccelli del cielo, come in ognuno che striscia sulla terra e in tutti i pesci del mare; essi sono dati in vostro potere. Tutto quello che si muove e ha vita sarà vostro cibo”. La Bibbia signore e signori.

Forse ho smesso di essere un mostro quando ho smesso di dirmi che c’erano altre priorità prima di preoccuparmi degli animali. Non eravamo esseri superiori perché gli unici dotati di morale? Come amministriamo la nostra morale? Non potevo più rimandare: voglio essere un mostro che dall’alto dei suoi privilegi può fregarsene di tutto?
Ogni discriminazione è correlata e non si può che partire dagli ultimi, dalla base della piramide delle ingiustizie. Lo sapevo già ma all’improvviso l’ho sentito, il mio corpo urlava quella semplice verità.
Gli animali possono liberare tutti!

Vito non è morto, è sopravvissuto grazie a due protesi che gli hanno permesso di camminare ancora, nonostante un’auto gli avesse strappato le due zampe posteriori.

Vito è vivo e mio fratello fa il macellaio.


Testo scritto da Linda Ronzoni, direttrice di Il Lazzaretto
Immagine generata in dialogo con Intelligenza Artificiale

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Questo articolo è stato scritto da Linda Ronzoni

2 commenti

  • quel mostro dentro di noi, grande o addormentato che sia, bisogno imparare a tenerlo a bada. Se non li educa e si sveglia all’improvviso o “è sempre stato così” le cose non andranno bene. c’è un mostro dentro di me che da anni mi guarda sornione nella penombra in attesa di un mio passo falso. Avrei dovuto fare amicizia con lui invece di tenerlo/temerlo a distanza.

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