
Primo maggio, su coraggio
All’inizio era l’Eden e nell’Eden Adamo ed Eva si rincorrevano nudi, coglievano la frutta matura dagli alberi, facevano l’amore e da capo a mangiare la frutta matura, rincorrersi nudi… Solo dopo la caduta, Dio inventa il lavoro, come punizione per Adamo: Tu, disse puntando il dito “ti guadagnerai il pane con il sudore della fronte” (e Tu, tuonò girandosi dall’altra parte, partorirai con dolore; ma questa è un’altra storia).
È il 1995 quando Jeremy Rifkin, sociologo ed economista, pubblica La fine del lavoro: il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercatodiventato subito un best seller internazionale; Rifkin prevede entro pochi anni il definitivo trionfo delle macchine sul lavoro umano proponendo soluzioni per ridurne l’impatto sociale e trarre vantaggio da questa trasformazione.
È il primo maggio 2020, siamo bloccati in una quarantena che diventerà ottantena, rinchiusi ognuno nel proprio lazzaretto; gente in cassa integrazione, gente licenziata dal proprio lavoro precario, gente costretta a uscire e a lavorare in condizioni pericolose per la propria salute, gente in smart working che suona più disimpegnato e cool di lavoro da casa. Comprensibilmente preoccupati dal proprio sostentamento, dalla propria sopravvivenza, immersi in un presente claustrofobico e asfissiante non riusciamo a buttare lo sguardo oltre il mese prossimo, il prossimo settembre, il prossimo Natale.
Rivendichiamo la vita di prima (ma qualcuno rivendica davvero? O non è più che altro un chiedere petulante e vuoto dalle nostre finestre social?), un’idea di mondo tutto e di mondo del lavoro già morto o che morirà dopodomani.
Venticinque anni dopo la pubblicazione di Rifkin buona parte del mondo si sta avvicinando a quella che l’autore ha chiamato “la fine del lavoro”; entro il 2050 emergerà una nuova classe di persone: la classe inutile. Persone non solo disoccupate, ma inoccupabili, perché il vero problema non sarà creare nuovi mestieri, ma creare nuovi mestieri che gli esseri umani siano in grado di fare meglio degli algoritmi. La stessa tecnologia che rende gli esseri umani inutili potrebbe rendere possibile mantenere le masse senza occupazione attraverso il reddito minimo. Il problema non sarà economico quindi, il vero problema, a quel punto, nel 2050, sarà: cosa farà tutto il giorno la classe inutile?
Avremo il coraggio di ribaltare il paradigma sul lavoro tanto per cominciare, e smarcarci da un’idea culturale identitaria ed economica che è ormai alle corde?
Ci è stato insegnato che dobbiamo guadagnarci il pane “con il sudore della fronte” e che non è giusto che ci arrivi il pane solo perché in giro ce n’è a sufficienza.
Ci è stato insegnato a identificare noi stessi col lavoro che facciamo.
Forse potremmo partire proprio da qui, dall’idea che, chissà, la fine del lavoro non comporterà necessariamente una perdita di senso.
I bambini trovano enorme interesse e significato nella vita. Anche senza lavorare un solo minuto.
Ad esempio.
Linda Ronzoni
Direttrice Creativa Il Lazzaretto
Bibliografia
Jeremy Rifkin, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato [Oscar Mondadori, 2002]
Jeremy Rifkin, La società a costo marginale zero. L’internet delle cose, l’ascesa del «commons» collaborativo e l’eclissi del capitalismo [Mondadori, 2014]
Yuval Noah Harari, Homo deus. Breve storia del futuro [Bompiani, 2017]
Categoria: L'editoriale
Questo articolo è stato scritto da Federico Basile