
Randagia
Si fanno cose strane quando si è innamorati. È come se ci buttassimo a capofitto fuori da noi.
Sei lì a guardarti fare cose assurde, col cervello strafatto di dopamina e adrenalina e ogni tanto ti chiedi: ma cosa diavolo sto facendo?
La promessa dell’amore ci rende docili e spregiudicati allo stesso tempo. Addomesticati e liberi.
Nel caldissimo agosto del 2014 ho fatto un viaggio in India. Da Shillong, vicino al Bangladesh, fino a Cochin, quasi 4000 km, alla guida di un risciò a motore, un Apecar per intenderci, di quelli che usava mio zio Silvio per portare il pesce al mercato ogni mattina.
Un viaggio assurdo in cui mi alternavo con Silvia alla guida di quel mezzo scassato, cercando di ingranare le durissime marce e sterzando all’improvviso per evitare le mucche sdraiate in mezzo alla carreggiata e le voragini che si aprivano nell’asfalto.
Silvia mi aveva portata a capofitto fuori da me, io volevo dimostrarle che ero all’altezza della sua idea di viaggio avventuroso, se era una prova l’avrei superata. Stavamo assieme da qualche mese.
C’erano i templi in cui camminare a piedi nudi con il sari annodato in vita, l’odore forte di spezie che riempivano l’aria dei centri abitati, una quantità di persone per metro quadro inimmaginabile, ma soprattutto cani. Tantissimi, di varie stazze e misure, quasi tutti beige, che scartavano all’improvviso davanti al nostro risciò o dormivano, come narcotizzati, buttati ovunque. Cani randagi.
Ma cosa diavolo ci facevo lì?
Nel 1873 nasce nel Regno Unito il Kennel club, il più antico circolo cinofilo del mondo.
È in questo periodo che si sviluppa l’idea che i cani debbano appartenere a una razza definita da aspetti estetici e standard fisici, così come nascono i canili per la caccia alla volpe e l’interesse per le esposizioni canine. Nell’India coloniale i britannici importano animali di “razza pura”, istituendo anche lì club cinofili e mostre canine.
Viene introdotta la parola “randagio” per i cani di strada, marchiandoli come creature che non stanno nel posto giusto, ovvero all’interno di un’abitazione umana. I britannici introducono il termine nella legislazione indiana, considerando i “cani randagi” come illegittimi, al contrario di quelli da compagnia.
Le autorità municipali indiane, varano leggi che sottopongono i cani liberi a sequestro e abbattimento.
In tutta l’India coloniale si cominciano a uccidere i cani: avvelenamento e fucilazione da parte della polizia o bastonate, il più delle volte inflitte da uomini di caste oppresse.
Nel 1832 a Bombay scoppiano manifestazioni e scioperi per protestare contro l’abbattimento dei cani.
L’eredità del dominio britannico, nonostante le manifestazioni dal basso, si mantiene anche dopo l’indipendenza, fino al 2001, quando nella legge indiana l’espressione “cani randagi” viene sostituita da “cani di strada” e l’uccisione come metodo per limitarne il numero diventa illegale.
I cani liberi diventano una parte integrante della vita di strada indiana in netto contrasto con la cultura occidentale rispetto al possesso di animali domestici.
I cani liberi sono una sfida all’idea che gli animali debbano servire a qualche scopo umano.
Liberi dai padroni umani e dalla vita addomesticata, i cani indiani vivono una vita da cani: dormono quando vogliono, socializzano con amici che scelgono liberamente, fanno pipì quando il bisogno chiama e mangiano quando hanno fame, sempre che riescano a trovare qualcosa da mangiare.
Se, come dice Alexander Lowen, il piacere è legato all’essere vivi, senza scopi, semplicemente in contatto con il piacere del corpo, allora il cane libero ci mette di fronte alla nostra incapacità di gestire il piacere e la libertà senza esercitare subito un potere, senza mettere un vincolo, senza dominare.
Più del gatto che sta nelle nostre case ma che è un animale di confine e si muove tra domesticità e selvaticità, il cane è nel nostro mondo è del nostro mondo. Condivide il nostro spazio, è vicino.
Se qualcosa è lontano lo possiamo ignorare, temere, rimuovere, ammirare o idealizzare. Se è vicino lo dobbiamo sottomettere, ordinare, proteggere, soggiogare.
Sembriamo incapaci di un atteggiamento dialogico, in cui riconoscersi in posizione di parità.
Durante quel viaggio in India provavo un’attrazione insolita per i cani liberi, pieni di pulci e di ferite che riempivano le strade, le gradinate, i templi, e a un certo punto del viaggio ho cominciato a fotografarli.
Forse per distrarmi, forse per ritrovarmi, immortalandoli, in esseri che in quel momento mi assomigliassero: randagi, incerti, impolverati, affamati, senza una meta.
Alla fine di quell’incredibile mese attraverso l’India avevo centinaia di foto di cani randagi indiani.
Gli ultimi giorni a Cochin abbiamo “adottato” una cagna randagia, le abbiamo dato da mangiare ogni volta che uscivamo di casa, Silvia con dei guanti un giorno le ha tolto le zecche più aggressive. L’abbiamo chiamata Chapati, come il pane indiano.
Sapevamo che non aveva senso, affezionarsi, darle da mangiare, che poi saremmo partite, ma era più forte di noi.
Un tizio, dopo qualche giorno, ci ha detto che si chiamava Gina.
Chapati Gina, da qualche parte in India, io me la immagino ancora così.
Che trotterella nella via mentre ce ne stiamo andando, docile e spregiudicata come tutti gli esseri liberi, senza il rancore e la rabbia di chi è stato dominato e represso.
Ci siamo girate un’ultima volta a guardarla.
Per un po’ l’avevamo sentita nostra, ma non era nostra.
Era libera, era con tutti e di nessuno.
Testo scritto da Linda Ronzoni, direttrice di Il Lazzaretto
Gli editoriali del 2025 sono illustrati dall’artista visivo Andrea Q . In direzione del Festival, editoriale dopo editoriale, le sue opere offriranno sguardi intorno al binomio Potere-Piacere.
Per la newsletter di questo mese l’illustrazione di Andrea Q è: “Prendi poco ma che sia giusto per te”.
Categoria: L'editoriale
Questo articolo è stato scritto da Federico
4 commenti
La storia della cagna randagia Chapati Gina è non solo bellissima ma mi pare contenere in sè un’idea, forse paradossale, ma sicuramente simbolica della libertà femminile. Libera la cagna nonostante il suo essere randagia e forse affamata e libere tante donne nonostante un mondo che le vuole ancora in posizione marginale o subalterne o poco apprezzate. Libere nonostante tutto.
Cara Micaela cogli proprio nel segno. Chapati Gina non è solo un simbolo ma è proprio l’incarnazione di come occuparsi dei diritti dei più indifesi e piccoli abbia una ricaduta inevitabile su tuttə.
Siamo con tutte le Gina Chapati del mondo Silvana ed io, Anna.
Abbiamo avuto nei tempi andati il guinzaglio ma ad un certo punto, abbiamo scelto la libertà. Libertà è anche viaggiare per 4000 km nonostante fame polvere puzza e mezzo di trasporto considerato assurdo nella nostra cultura.
Il viaggio dell’amore che non lega è davvero libertà quando si ha la consapevolezza … e che libertà!
Bellissimo racconto.
Grazie Anna. E viva Silvana che può stare nel mondo senza guinzaglio ❤️