
Tergiversare
La sineddoche. Vi ricordate a scuola? La parte per il tutto. Era la mia figura retorica preferita, sulla carta, anche se poi le esemplificazioni poetiche erano sempre un po’ banali e non particolarmente entusiasmanti: c’erano un sacco di prue al posto delle navi, di tetti al posto di case e di pupille al posto di occhi. Vabbè che sarà mai sta invenzione della sineddoche, mi dicevo.
Poi, la prima volta che ho incontrato le opere di Domenico Gnoli, la sineddoche è deflagrata in tutta la sua potenza esplosiva. L’artificio linguistico ha trovato una sua incarnazione perfetta.
Bottoni e asole, riccioli di donna, lembi di tessuto, colletti, nodi di cravatte e figure che ci danno le spalle. Quadri di dettagli, opere in cui il mondo sembra ingrandito al microscopio. Parti per parlare sommessamente del tutto.
L’ordine dipinto da Gnoli, il silenzio dei suoi oggetti sono l’opposto del caos. Allo stesso tempo, tuttavia, riescono a essere anche il contrario della freddezza: quei vestiti, quei polsini e quelle cravatte non sono astratti still-life: si intuisce sempre un corpo, una vita ad animarli. Il cuscino della poltrona è leggermente schiacciato, il torace fa una curva sotto l’elastico del reggiseno.
Nel micro-macro cosmo di Gnoli ritrovo una calma, una grazia, l’abbondanza di tempo, non ho bisogno di essere multitasking, né di frammentare la mia attenzione. Posso essere concentrata. Prendermi una tregua da me stessa e dall’esibizione di me.
Le figure di schiena sono presenza costante nella storia dell’arte. La prima figura di spalle è stata, in età romana, la Flora di Stabia, esempio rimasto solitario fino al Trecento, epoca in cui i soggetti di schiena fanno la loro comparsa. Nel Rinascimento le figure ritratte da dietro sono perlopiù parte di scene collettive mentre diventano protagoniste nella pittura fiamminga.
È però solo nell’Ottocento che in Occidente l’inquadratura comincia a stringersi sempre più sulla nuca, fino a diventare un tormentone pittorico con le Rückenfiguren, icone della contemplazione romantica.
Anche Domenico Gnoli subisce il fascino delle figure di schiena: nel 1965 dipinge una Gioconda di spalle e in molte lettere alla madre racconta della sua passione per le persone viste di schiena. Osservare gli oggetti di schiena è per lui un invito a mettere da parte le certezze, a sospendere gli automatismi. Le figure di schiena incoraggiano lo stupore, scrive Gnoli.
Le spalle non sono il semplice rovescio di una visione frontale, ma un contrappunto autonomo, una parte del corpo dotata di indipendenza, una sorta di bonus track a volte in disaccordo col corrispettivo frontale. La schiena è la parte del corpo che ci è più estranea, su cui non abbiamo controllo. Come appariamo di spalle deve essere qualcun altro a dircelo, una persona, uno specchio, una foto.
Guardare il dietro delle cose e delle persone ci permette di indugiare, cosa che possiamo fare raramente. È difficile guardare qualcuno negli occhi senza fare o dire qualcosa. Essere faccia a faccia ci spinge a ricambiare lo sguardo, a interagire, ci costringe a un dialogo. Le figure di schiena ci lasciano il tempo di esitare, di soffermarci, di prenderci tempo.
Di tergiversare. Appunto.
Le figure di schiena mi concedono una tregua.
Da me stessa e dagli altri.
Bibliografia
Eleonora Marangoni, Viceversa. Il mondo visto di spalle (Johan & Levi, 2020)
Domenico Gnoli, Lettere e scritti (Abscondita, 2004)
Credits
image © Domenico Gnoli
text © Linda Ronzoni – Direttrice Creativa Il Lazzaretto
Categoria: L'editoriale
Questo articolo è stato scritto da Federico Basile