Nino, Pestifero #07

D’estate virgola a piedi nudi punto.
Finita!

Ci sono giorni in cui ho l’urgenza di scrivere a mano, di girare la matita tra indice e pollice, di sentire l’odore della grafite, di far scorrere i polpastrelli sulla carta ruvida del taccuino, di un tavolo di legno su cui stare curvo a covare le parole.
Perché la poesia si fa con il corpo. Voglio dire che il corpo, e tutto quello che lo muove, diventa poroso, filtra, lascia passare odori di cose. Gli occhi, le mani, il ventre, l’arcata del petto sono investiti da questo vento che ci scuote, che ci fa partorire i sogni.

Ma ci sono giorni, come oggi, in cui voglio essere il direttore d’orchestra, cadenzare il rumore secco dei tasti sulla carta, tendere l’orecchio al fruscio del carrello, governare le geometrie delle aste di metallo che salgono e scendono come gambe nel nuoto sincronizzato.
Sentirmi come il maresciallo che compila un verbale o la segretaria che trascrive in bella una lettera commerciale. Devo comandarmi, costringermi a qualcosa di meno intimo e più ufficiale. Le virgole e i punti devono sentirsi in tutta la casa. Papà sta scrivendo, dice mia moglie ai bambini per farli stare buoni.
In realtà i giorni in cui uso la macchina per scrivere sono i giorni in cui la poesia più che scriversi deve suonare.

Altre volte, ancora, mi travesto da speleologo, faccio operazione di scavo in regioni remote e barbare. Mi interessano gli oppressi, gli emarginati.
Utilizzo la lingua brutale della loro condizione di sofferenza. Tra rabbia, dolore, disperazione ma anche ironia, un popolo di sconosciuti – prostitute, infermieri, vecchi, matti – emerge come dal nulla reclamando diritto di identità. Emergono voci che risuonano dentro di me come campane.
Sono voci in dialetto, che il dialetto, a differenza dell’italiano levigato e illustre, è il fratello umile: è vissuto all’aperto come un’erba selvatica, bagnato dalla pioggia dei secoli è come un’erba pertinace di gramigna, si è arrampicato sui monti, si è addentrato nei minimi villaggi, ha coperto ogni metro di terra dove viveva la gente comune del lavoro e dei sacrifici.
L’altro giorno un vecchio, con la faccia piena di rughe e la schiena spezzata dal lavoro di contadino mi ha detto: l’uomo è un animale feroce, e sai perché? L’uomo è un animale feroce perché non ha imparato a parlare con le formiche, perché domina il cavallo di lui tanto più nobile, è feroce perché ha paura di morire.

Che lavoro fai mi chiedono? Ascolto le voci.

Che poi di lavoro io ho fatto mille lavori e li ho odiati tutti, a parte ascoltare le voci. Che voi direte che non è un lavoro.
Quando facevo l’impiegato per esempio le ore mi si incollavano sull’orologio. Dalle undici a mezzogiorno passavano mesi. Mi lavavo le mani quindici volte, mi alzavo e guardavo fuori dalla finestra. Pensavo con invidia furiosa a quelli che stavano fuori, liberi come gli uccelli, ai contadini, ai muratori che salgono sui tetti e vedono il mare e soprattutto ai postini che imboccano le vie del centro ammirando i portali delle case patrizie, liberi persino di fischiare se li aggrada… Ma poi come anch’io mi misi a fare un lavoro all’aperto, l’aiuto geometra, e mi dovevo alzare presto per misurare le strade, ecco che il freddo piglia a saltarmi addosso, a mordermi le orecchie e i piedi e la nebbia mi arrossa gli occhi. E poi le automobili, i cani dei contadini, il fango. Così pianto tutto e mi metto a fare il maestro. Dopo sei mesi avevo l’animo di un omicida. Niente di più egoista di un bambino.

Invece ascoltare le voci, farle risuonare come campane. Covarle chino sul tavolo. Orchestrare nuoti sincronizzati. Questo sì che mi salva.

Lina ho finito una poesia, te la leggo, dimmi se suona bene.

Titolo: I nomi delle strade
Le strade sono
tutte di Mazzini, di Garibaldi,
son dei papi,
di quelli che scrivono,
che danno degli ordini, che fanno la guerra.
E mai che ti capiti di vedere
via di uno che faceva i berretti
via di uno che stava sotto un ciliegio
via di uno che non ha fatto niente
perché andava a spasso
sopra una cavalla.
E pensare che il mondo
è fatto di gente come me
che mangia il radicchio
alla finestra
contenta di stare, d’estate,
a piedi nudi.

D’estate virgola a piedi nudi punto.

Cosa te ne pare?

Nino Pedretti è stato tra i maggiori poeti italiani nonché tra i principali animatori del “Circolo del giudizio”, il gruppo di intellettuali santarcangiolesi di cui hanno fatto parte, tra gli altri, Tonino Guerra, Raffaello Baldini, Gianni Fucci e Rina Macrelli e che ha segnato la storia della letteratura dialettale italiana del Novecento.

Laureatosi in lingue ad Urbino, dopo un periodo trascorso in Germania, Pedretti diventa insegnante di lingua inglese a Cesena, e poi al Liceo Scientifico Marconi di Pesaro (città dove vivrà con la moglie, Lina Conti e i tre figli Daniela, Anna Maria e Paolo) e infine al Torelli di Fano.
Poeta «per necessità» (come lo definì Carlo Bo), nel 1975 pubblica Al vòuşi, la sua prima raccolta di poesie in romagnolo, cui seguono, nel 1977 Te fugh de mi pàeis e la raccolta in lingua italiana Gli uomini sono strade. Nel 1981, anno della sua morte, avvenuta a soli 57 anni, pubblica la raccolta La chèşa de témp. Saranno pubblicati postumi i suoi monologhi e racconti e le poesie inedite in lingua italiana.

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Questo articolo è stato scritto da Federico

2 commenti

  • Micaela

    Semplicemente sublime. Come lo racconti lo fai vivere un’ altra volta. E fai sentire a noi la struggente malinconia del suo ” ascolto le parole”.
    Grazie. Come sempre

  • nicoletta bernardini

    Ho trovato interessante come ripercorre le fasi lavorative della sua vita….Grazie.

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